di Elena Di Bacco
Il vino protagonista nelle opere dei grandi autori italiani, da Alessandro Manzoni a Gabriele d’Annunzio
Il vino, amato e celebrato in tutto il mondo, in Italia è sempre stato anche un simbolo culturale.
Nell’antichità era considerato emblema della filosofia della misura, perché esaltava meglio di qualunque altra cosa il dualismo tra bene e male.
Per questa sua unica capacità di incarnare le contraddizioni della vita, è stato spesso usato in letteratura per raccontare contesti sociali, introspezioni psicologiche e natura delle relazioni umane.
Ne “La Locandiera” (1752), Goldoni associa i vini agli uomini che girano intorno alla locandiera Mirandolina.
Il Cavaliere, altezzoso e snob, viene paragonato ad un robusto Borgogna, mentre lo spiantato Marchese è associato al modesto vino di Cipro, l’illustre Conte alla Malvasia. E la seducente Mirandolina, la protagonista dell’opera? Lei rappresenta appunto il vino nella sua essenza, e ne esprime tutta la capacità ammaliatrice, infatti brinda, accogliendo tutti gli uomini a sé.
Nei Promessi Sposi, Manzoni fa del personale rapporto con il vino un tratto caratterizzante fondamentale dei suoi personaggi. Il pavido Don Abbondio, dopo l’incontro con i bravi, cerca solo il “suo” vino per placare l’ansia, e Perpetua, dispettosa e materna governante, baratta le sue confidenze in cambio dell’agognato calice. E che dire del giovane Renzo, bravo ragazzo dall’animo turbato che si rifugia nel calice per affrontare le difficoltà che il Fato gli mette di fronte? Il vino definisce e regola tutti i rapporti umani del romanzo, è una specie di bilancia emotiva. Ciascuno trova nel suo fluire conforto alle sue pene e, spesso, ai suoi peccati.
E se Manzoni amava così tanto il vino da farsi fabbricare un bicchiere due volte più grande, così da non sentirsi accusato di alzare troppo il gomito, Giacomo Leopardi, il più grande poeta italiano, pur senza sperimentare questi eccessi era un fautore appassionato del potere di Bacco.
Il vino, infatti, secondo il poeta, potenzia il pensiero, migliora azione e riflessione, rende l’uomo capace di vedere cose che da sobrio non vede, sfumature che non avrebbe colto, verità che non aveva inteso. Inoltre, il vino aiuta con le donne, rendendo coraggioso il corteggiatore meno audace, e donandogli il segreto dell’amore ricambiato, che tanto il poeta stesso aveva rincorso nella sua vita.
Anche Giovanni Pascoli, da buon romagnolo, era un grande amante del vino. Anzi ne beveva così tanto che si dice ne abusasse, per questo nelle sue opere non si fa mai menzione esplicita della bevanda, motivo di vergogna e vizio per il poeta, ma si parla, tanto, di vite, attraverso la quale il poeta esprime anche le conseguenze del consumo del vino stesso. La vite diventa quindi una metafora del suo frutto. Nei “Tre grappoli” ad esempio, si indagano gli effetti progressivi dell’alcool sulla psiche, corrispondenti ciascuno ad un grappolo. Bevendo il primo arriva un’allegra euforia, bevendo il secondo un consolatorio oblio e, bevendo il terzo, un sonno solo apparentemente lenitivo di un dolore, che invece resta sempre acquattato in fondo all’anima.
Pure Giosuè Carducci non era insensibile ai richiami del buon vino, ma il suo era un rapporto più genuino, godereccio, lontano dagli eccessi e dai tormenti di Pascoli. Carducci amava le grandi tavolate, gli amici, il buon cibo…e ne infarciva molta della sua poesia. Gli piaceva molto la Barbera, che aveva reso protagonista di alcuni suoi versi: “Generosa Barbera! Bevendola ci pare d’esser soli in mare sfidanti una bufera!” a sottolinearne il carattere forte e avventuroso. Era insomma una bevuta più allegra, la sua, un’esperienza che allontanava i tormenti e si faceva pura passione.
Il grande cantore del piacere Gabriele D’Annunzio al contrario, con nostra grande sorpresa, era quasi astemio, anche se sapeva descrivere il vino molto bene, soprattutto nella sua declinazione amorosa. Per questo, nonostante ne facesse parco uso, aveva una fornitissima cantina, con la quale seduceva le sue molte ospiti.
Cesare Pavese ci riporta invece ad una dimensione più agreste, naturale, immersa nell’incantevole scenario delle Langhe, terra dei grandi vini piemontesi come il Moscato, il Nebbiolo o la Barbera.
Qui il vino è rappresentato nel suo stato primigenio, la vigna, e racconta soprattutto della fatica del lavoro nei campi e dei modi per superarla attraverso la socialità, che si esprimeva nei canti per festeggiare il raccolto. Più che il vino in sé, protagonista delle opere di Pavese è il ritmo della natura. Il vino non è più simbolo, ma elemento naturale che esprime la bellezza della terra e la dignità del lavoro nei campi.
Ci avviciniamo al disincantato materialismo di Giovanni Verga, che raccontò nelle sue opere gli stati più umili della società, occupati da pescatori, pastori e contadini. Il vino, in questo contesto, è parte integrante del piccolo ma necessario patrimonio dei poveri, anzi diviene simbolo di tutto ciò che, diversamente, non ci si potrebbe permettere.
Mille altre opere e mille altri autori, fino ai giorni nostri e oltre, potremmo citare a riprova del fascino seducente del vino per i poeti italiani, vino da consumare ma soprattutto da narrare. Perché il vino, in Italia, è decisamente molto più di una bevanda. Il vino è cultura, tradizione, simbolo sociale che, nel suo sacro fluire, rappresenta perfettamente l’essenza più pura della nostra terra, e insieme, la più sincera disamina della mutevole e contraddittoria natura umana.