Scopriamo gli elementi che fanno della viticoltura in alcune zone della Sardegna e della Sicilia, una pratica eroica, primordiale e umana.
Il rispetto per le tradizioni ancestrali che arrivano dal passato. E per due territori che rappresentano tesori paesaggistici. Poi ancora condizioni climatiche e pedologiche estreme, tra pendenze ed escursioni termiche considerevoli. I principi di base che animano i vignaioli della Sicilia dell’Etna e della Sardegna, specie nella zona del Mandrolisai, sono simili. L’approccio in punta di piedi quasi per non disturbare i meravigliosi paesaggi circostanti anche. E in alcuni casi pure le tecniche impiegate, con la coltivazione della vite ad alberello, le pratiche utilizzate per lavorare la terra, che lasciano fuori dai vigneti le macchine e si appoggiano ancora all’ausilio degli animali. Tutti questi elementi fanno della viticoltura in alcune zone della Sardegna e della Sicilia, una pratica eroica, primordiale e umana.
In Sicilia la viticoltura tra le terrazze costruite dall’uomo sul vulcano, si fonda sulla formazione delle maestranze, diventando un vero laboratorio che riprende le tradizioni e le pratiche di un tempo, alimentando l’estrema biodiversità che caratterizza il territorio lavico. In Sardegna, nel mezzo delle Barbagie, a ridosso delle montagne, i vigneti sono piccoli giardini, trattati come gioielli dove il tempo si è fermato.
Etna, la viticoltura eroica e primordiale sul vulcano della Sicilia orientale
di Marcella Pace
Quote altimetriche che variano dai 300 ai 1.300 metri di altezza sul livello del mare. Pendenze che possono superare il 40%. Escursioni termiche nel corso di una giornata che arrivano anche a 18 gradi. Un terreno che è frutto del disfacimento di diversi tipi di lava vulcanica di differente età oltre che di svariati materiali eruttivi. Quella lava che sotto forma di cenere, ma anche di lapilli, che in dialetto chiamano ripiddu, scende pure dall’alto. Le condizioni di base che connotano la zona dell’Etna, il vulcano attivo della Sicilia orientale, alto 3.340 metri e con un diametro da più di 50 chilometri, sono estreme sotto tanti punti di vista, tanto da rendere la viticoltura eroica. Qui la meccanizzazione non esiste. Tutto è fatto a mano. Per costruire le terrazze, sostenute da muretti a secco di pietra lavica, con cui si sistema il terreno che dovrà accogliere i vigneti, in modo da contenere la sabbia. E poi per lavorare i vigneti. La vite è allevata ad alberello, circondata da pali in castagno, un sistema rigoglioso che spinge verso l’alto, e la protegge da pioggia, sole e anche dal vulcano stesso, quasi come fosse un ombrello. La densità è anche di 8.000 viti per ettaro, rendendo impossibile entrare con un trattore.
E allora la viticoltura etnea è primordiale, ed è umana. Parte da questa convinzione, il progetto di Salvo Foti l’enologo considerato il custode della viticoltura etnea del passato. Lui che ha sempre lavorato nel mondo del vino, ha creato I Vigneri, un consorzio che oggi conta 250 mila viti sul vulcano, con circa 30 persone, riprendendo “La Maestranza dei Vigneri” un modello nato addirittura nel 1435. “La viticoltura etnea è molto particolare per questioni climatiche, pedologiche e infatti si coltiva un’estrema biodiversità di vitigni autoctoni – spiega Foti-, alcuni quasi estinti. Ci sono molte problematiche sulla montagna e ho maturato con il tempo che quello che anni fa stava venendo a mancare sull’Etna erano le maestranze. Per impiantare i vigneti, risalire il vulcano, per costruire le terrazze, ad esempio. E così ho deciso di recuperare un modello che risaliva a 600 anni fa. La Maestranza dei Vigneri era una corporazione che serviva da atelier, da laboratorio per formare gli uomini, prima ancora delle vigne. Mi sono ispirato a questo per creare un ente con l’obiettivo di formare i veri professionisti della vite, e proporre una viticoltura tradizionale e antichissima, con lavorazioni per la maggior parte manuali”.
Biodiversità e variabilità sono le principali costanti sull’Etna. In uno dei vigneti dei Vigneri, che si sviluppa sui 1.300 metri di altezza, il più alto, in inverno la temperatura scende sotto lo zero, con una coltre di neve che per settimane copre il terreno. In estate le escursioni durante il giorno arrivano persino a 18 gradi. Le 8.000 viti presenti sono di almeno 10 vitigni diversi. “Vitigni autoctoni che sono sempre stati sull’Etna – chiarisce l’enologo -. Più le condizioni sono estreme e più i vitigni aumentano perché questo dà la garanzia che il vigneto sopravviva nel tempo”. Alcuni sono quasi estinti, come la minnella nera e altri sono più noti e diffusi come i grandi bianchi: il carricante, la malvasia, la visparola, e il grecanico. Ma anche a bacca nera come l’alicante, il nerello cappuccio e il nerello mascalese. “Quest’ultimo – spiega Foti – è più un tipo da spiaggia. Ama il sole, il caldo e quando si sale trova più difficoltà”. In questo contesto di varietà e biodiversità, l’uomo interviene con rispetto per il territorio e per il gigante che è la montagna, come chiamano i siciliani l’Etna. Niente pali in cemento, mai fili di ferro, solo tutori di legno dell’Etna e recupero delle vigne anche in zone improponibili. “Non è eroismo – precisa Salvo Foti – è un sistema di conservazione del territorio. È un modo di adattarsi e di rispettarlo. L’uomo è artefice in quantità e qualità della gestione e della coltivazione del vigneto e questo consente di avere cura del territorio”. È pure un investimento sul territorio stesso. “Quando si lavora la vite con una manodopera specializzata qualitativamente, quello che si produce lo si restituisce al territorio stesso, anche economicamente, in una mentalità che guarda al futuro”.
Sardegna, i piccoli vigneti del Mandrolisai dove il tempo si è fermato
Piccoli vigneti, che con il cambiamento delle stagioni dipingono il paesaggio come fossero i colori in una tavolozza, trattati come gioielli per via delle produzioni limitate e dalle qualità superiori. Il tempo qui si è fermato e la viticoltura è primordiale ed eroica. In Sardegna, nel centro esatto dell’isola, nel mezzo delle Barbagie, a ridosso delle montagne, tra i 500 e i 700 metri di altezza, la collina si puntella di piccoli vigneti, estesi al massimo su mezzo ettaro di superficie, curati come giardini, dove si produce il Mandrolisai Doc. Gli allevamenti sono per lo più ad alberello o a cordone speronato bilaterale.
Gli inverni rigidi rispetto alla media dell’isola portano spesso anche precipitazioni nevose. E le escursioni termiche significative fanno colorare le uve. I vigneti ad alte quote dominano il territorio e sono piccoli appezzamenti incastonati tra boschi, siepi e altre colture frutticole oppure olivicole. “In questa zona la Doc richiede un uvaggio in vigna – spiega Gianni Nieddu, professore all’università di Sassari -. Nel disciplinare e nella tradizione i vitigni autoctoni vengono imposti con un rapporto simile di un 30 per cento per ciascuno. La saggezza popolare ha richiesto la monica, un vitigno precoce, molto produttivo anche in situazioni difficili; il cannonau che apporta il corpo, la struttura, gli zuccheri e l’alcol; infine il bovale sardo che conferisce il contenuto antociano. Non di rado molti imprenditori stanno uscendo dalla Doc puntando con degli Igt sul bovale sardo, vinificato in purezza che, sebbene fosse considerato un vitigno di difficile gestione, oggi riesce a produrre un vino ricco di antociani, con una struttura polifenolica valida, e durevole nel tempo”.
La cura delle piante è primordiale, con le macchine che vengono lasciate fuori dalle vigne. I viticoltori sono molto attenti a questo patrimonio recentemente iscritto nell’albo dei Paesaggi rurali d’interesse storico e quindi “se da una parte sono alla ricerca di innovazione – continua Nieddu – dall’altra fanno ancora ricorso alle tecniche di un tempo. Penso alla trazione animale, come accadeva migliaia di anni fa, con i buoi che vengono impiegati per l’aratura dei vigneti. È una viticoltura in qualche modo condizionata dall’isolamento di questa area”.
Ma quella di Mandrolisai non è l’unica zona vinicola eroica sarda. Tra queste si colloca l’area del Sulcis, dove si coltiva il carignano. “Diventa eroica la zona di Sant’Antioco, una isoletta a sud della Sardegna – sottolinea Nieddu – nella costa occidentale. È un’area sabbiosa. La fillossera non ha mai avuto modo di affermarsi e quindi troviamo ancora vigneti privi di portainnesto, franchi di piede che hanno età diverse perché vengono rinnovati costantemente. Si trovano piante secolari al fianco di altre recentemente sostituite.
Questo si aggiunge alle specificità di un vitigno coltivato a ridosso del mare”. Anche in questo caso, in tante zone, nell’isoletta, ma pure sulla terra ferma, vi sono espressioni del carignano con allevamento ad alberello e con trazione animale, che stavolta sono asini e cavalli. “Queste situazioni – conclude Nieddu – possiamo trovarle in maniera più puntiforme in zone più alte, come Orgosolo, Mamoiada, Jerzu, paesi del centro dell’isola dove si coltiva il cannonau, con piccoli vigneti, ancora a trazione animale, ancora ad alberello, e con persone affezionate che li curano come dei gioielli. Con fatica e sacrificio”.
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